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Clima. Molti dati, pochi risultati. Bilancio a un anno dall’incontro di Ferrara
Di Remedios Cortese e Alice Roffi. Infografica di Lisa Orlando e Tonia Principe
Il cambiamento climatico e la sua causa sono un argomento controverso più a livello mediatico che nella comunità scientifica. Non vi è dubbio, la causa sono le attività antropiche.
Come ha affermato Carmela Vaccaro, geologa dell’Università di Ferrara, nel corso dell’incontro“Clima. Molti dati pochi risultati” tenutosi nell’ateneo estense a novembre 2018, il cambiamento climatico è stato determinato dall’aumento di emissioni di gas a effetto serra, quali anidride carbonica (CO2) e metano (CH4). Questi gas principalmente derivano dalla combustione del petrolio, dalla deforestazione e dagli allevamenti intensivi di animali.
Che l’aumento della concentrazione della CO2 fosse fuori controllo non lo abbiamo scoperto da poco.
Dati inconfutabili
Nel 1958 Charles David Keeling, effettuò la prima rilevazione della concentrazione di anidride carbonica dalla cima del Mauna Loa (Hawaii): 315 parti per milione di CO2.Ad oggi la “curva di Keeling” segna 409 parti per milione di CO2.
Il notevole incremento di anidride carbonica, ha contribuito a determinare l’aumento della temperatura globale: dal 1880 ad oggi il termometro è salito di 0,8 gradi centigradi. Secondo la NASA dal 1975 in poi il tasso di crescita è stato pari a 0,15-0,20 gradi a decennio. L’Intergovernmental Panel on ClimateChange (IPCC), ipotizza una crescita che arriverà a 1,5 gradi centigradi tra il 2030 e il 2052.
L’aumento di concentrazione di gas serra nell’atmosfera ha effetti sui delicati equilibri che regolano gli ecosistemi della Terra.
I ghiacciai si stanno ritirando ovunque nel mondo, dalle Alpi alle Ande, in Alaska e in Africa. I livelli dei mari si sono innalzati di circa 20 cm nell’ultimo secolo e la velocità di innalzamento aumenta ogni anno.
Dall’inizio della Rivoluzione industriale, l’acidità delle acque superficiali dell’oceano è cresciuta del 30% a causa dell’incremento di CO2 assorbita: ad oggi, circa 2 miliardi di tonnellate annue.
In un futuro non tanto lontano, molti laghi e i fiumi potrebbero prosciugarsi; ci sarebbero periodi di siccità più lunghi e frequenti che renderebbero difficile la coltivazione. Molte piante e specie animali si estinguerebbero. Mediamente, una specie vive un milione di anni. Attualmente invece la biodiversità si sta riducendo a un ritmo da 100 a 1000 volte più elevato rispetto a quello “naturale”. Siamo di fronte ad una estinzione delle specie superiore a quella che la Terra ha vissuto negli ultimi 65 milioni di anni, persino superiore a quella che ha segnato la fine dei dinosauri.
Sappiamo ma non sentiamo
Ma se siamo a conoscenza di tutto ciò, perché non agiamo come collettività e come individui?
Lo scenario è estremamente articolato. La discordanza tra conoscenza del fenomeno e azione include molteplici aspetti dell’interiorità individuale e della dimensione collettiva odierna.
Nel corso dell’incontro ferrarese, Elena Pulcini, filosofa dell’Università di Firenze, ha invitato a cercare nello scollamento tra la sfera cognitiva e la sfera emotiva degli individui l’origine della mancata attuazione di misure di contenimento del fenomeno. È un meccanismo di difesa.
Gunther Anders, marito di Hannah Arendt, diceva che noi sappiamo quel che succede ma non sentiamo.
Nel caso del riscaldamento globale si è generato un corto circuito tra comunità scientifica e decisori politici. In queste circostanze i cittadini si sono deresponsabilizzati.
Di fronte alla minaccia di estinzione della nostra specie, le coscienze individuali sono andate fuori controllo ed è stato più semplice minimizzare o addirittura negare piuttosto che affrontare il problema.
La catastrofe non è un concetto che facilmente rientra nella nostra quotidianità.
Secondo Elena Pulcini, l’individuo moderno soffre della rimozione della vulnerabilità, della fragilità. Nello scenario capitalistico occidentale si è sottolineata troppo l’idea di autonomia, di autosufficienza, di potere e di potenza. L’individualismo è divenuto illimitato. Ci siamo trasformati in individui spettatori spinti in una sorta di atomismo individualistico.
Non è solo un modello filosofico di analisi della realtà, lo dicono anche le statistiche.
La misura della percezione pubblica
Secondo i dati di Eurobarometer, gli europei ritengono che il problema del cambiamento climatico esiste e sia rilevante. Tuttavia lo percepiscono come non dipendente da loro e distante nel tempo e nello spazio.
C’è una certa reticenza nell’aderire ai comportamenti virtuosi. Sussistono un rifiuto e un allontanamento del problema poiché la reale accettazione includerebbe una variazione sostanziale delle proprie abitudini.
Nel 2017, l’81% degli italiani dichiara che il cambiamento climatico è un problema molto serio. Tuttavia, solo il 9% dei cittadini italiani si ritiene responsabile del fenomeno. Il 64% non ha intrapreso nessuna azione per contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico.
Nel 2019, il 20% degli italiani si ritiene responsabile: in due anni c’è stato un incremento di ben 11 punti percentuali. Questo valore rimane comunque molto basso se paragonato alla percentuale di chi ritiene che il problema sia molto serio (84%).
Qualcosa si è mosso
Un anno dopo l’incontro presso l’ateneo ferrarese, qualcosa è cambiato. Il silenzio pubblico si è rotto, in maniera fragorosa.
Parla a dicembre 2018 Greta Thunberg, a cui va forse il merito di avere innescata la rottura del lungo “silenzio deresponsabilizzato”. Alla COP24 (Conference of the Parties) in Polonia afferma: “Ciò che speriamo di ottenere da questa conferenza è di comprendere che siamo di fronte a una minaccia esistenziale. Questa è la crisi più grave che l'umanità abbia mai subito. Noi dobbiamo anzitutto prenderne coscienza e fare qualcosa il più in fretta possibile per fermare le emissioni e cercare di salvare quello che possiamo”.
Ne parla a luglio 2019l’astronauta italiano Luca Parmitano, nel suo primo collegamento dalla Stazione spaziale internazionale: “Negli ultimi sei anni ho visto deserti avanzare e ghiacci sciogliersi, spero che le nostre parole possano allarmare davvero verso il nemico numero uno di oggi”.
Ne parla anche Loredana Bertè che per tutta l’estate intona il ritornello: “Basta solo non pensare, il mondo finirà, non ti devi preoccupare, pronti con la prova costume, per il riscaldamento globale.”
A settembre 2019 Greta Thunberg ribadisce al summit climatico dell’ONU: “L'ecosistema sta collassando, siamo all'inizio di un'estinzione di massa, e tutto ciò di cui voi parlate sono soldi, favole e crescita economica"."La scienza da trent'anni è chiara ma voi distogliete lo sguardo, come osate?".
La crisi ecologica e i movimenti globali
In un anno non solo se ne è parlato, si è anche agito.
La Week for future si è conclusa il 27 settembre 2019 con milioni di giovani scesi in piazza in tutto il mondo. Una settimana di eventi organizzati in concomitanza con il vertice Onu Climate Action Summit. Una manifestazione di portata mondiale che ha coinvolto più di 185 paesi, contando un numero di partecipanti maggiore rispetto a quella di maggio.
La storia dei movimenti climatici parte dal 2015 con la Global Climate March del 29 novembre in concomitanza con la COP21 di Parigi. Questo fu il primo evento di portata mondiale voluto dai cittadini che ha coinvolto 175 paesi con 785.000 manifestanti.
Nonostante l’enorme partecipazione registrata alla Global Climate March, le successive marce nel 2016 a Marrakech e nel 2017 a Bonn durante la COP22 e la COP23, non raggiungono i numeri della precedente. L’interesse inizia a scemare.
Le cose cambiano a fine 2018, quando Greta Thunberg a soli 16 anni si siede davanti al parlamento svedese con il cartello “Sciopero da scuola per il clima”.
Il suo messaggio semplice ma dirompente ha fatto il giro del mondo riuscendo a smuovere milioni di giovani, diventando un grido di protesta.Sotto l’hashtag #FridaysforFuture, sono nati movimenti studenteschi a livello globale per sottolineare l’urgenza di agire contro una crisi ambientale che richiede un cambiamento di rotta immediato.